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Quinta fase                     Atteggiamento nei confronti della diversità


Lezione frontale, tempo scuola: 30’
 

A riprova della complessità del problema, la docente cita due posizioni antitetiche di famosi teorici relative all’accoglienza dei “diversi”:

- SARTORI G., dal libro Pluralismo, multiculturalismo e estranei Milano 2000.

Riprendendo Popper e la sua contrapposizione tra società chiusa e aperta, l’autore ci disarma da subito chiedendo: -“Quanto aperta può essere una società aperta? S’intende, aperta senza autodistruggersi come società, senza esplodere o implodere”.
Sartori procede cercando di far luce sulla nozione di “pluralismo”. Il pluralismo afferma che la diversità è il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua società. Il concetto si è sviluppato lungo un cammino che è andato dall’intolleranza alla tolleranza, dalla tolleranza al rispetto del
dissenso e poi, tramite quel rispetto, al credere nel valore della diversità. In effetti Sartori denuncia anche l’abuso e la banalizzazione del termine “pluralismo”: “Del pluralismo come credenza di valore non c’è più alcuna traccia, il concetto diventa completamente disancorato dalla sua ragion d’essere, e così una parola librata al vento che suona bene ma che significa poco”. Proprio per chiarire ulteriormente il senso del concetto, l’autore precisa che una cultura pluralistica deve richiamarsi al suo retroterra storico e quindi al principio di tolleranza; “… la varietà e non l’uniformità, il dissentire e non l’unanimità, il variare e non l’immobilismo… sono credenze di valore che emergono con la tolleranza, che si ascrivono al contesto culturale del pluralismo… queste sono le premesse in base alle quali dobbiamo valutare il cosiddetto multiculturalismo dei nostri giorni”. Ci sono molti altri spunti che meriterebbero una riflessione approfondita, ma non è questa la sede, non posso tuttavia esimermi dal citare almeno altri due concetti chiave che torneranno utili per il nostro discorso sul disagio degli stranieri. Innanzitutto va segnalato che, al momento di rispondere alla domanda da cui è partito, l’autore introduce una nuova nozione: quella di reciprocità, per la quale “il beneficiato (chi entra) ricambia il beneficiante (chi accoglie) riconoscendosi beneficiato… Pluralismo è sì vivere assieme in differenza e con differenze; ma lo è se c’è contraccambio”.
Significa che lo straniero che non si dispone anche ad aprirsi, a ricevere, a concedere qualcosa in cambio, non può che restare “estraneo” alla comunità che lo ospita indipendentemente da come questa si pone nei suoi confronti. Sartori compie poi un’accurata analisi del termine “straniero” ed “estraneità”: l’immigrato è un “diverso”, un “estraneo” (l’autore evidenzia in corsivo le due parole), egli “dispiega un sovrappiù di diversità”, è così un “extra o un eccesso di alterità”. Questo sovrappiù di diversità si può raggruppare, semplificando, sotto quattro voci: linguistica, di costume, religiosa, etnica. Sartori insiste che solo chiarendoci questi aspetti si può valutare che tipo di integrazione si deve attuare. Egli giunge a sostenere che “… se gli immigrati sono di natura diversissima” non ci potrà essere “una ricetta unica” per la loro integrazione. Proprio partendo da questa certezza il nostro ci spiega che l’immigrato islamico probabilmente per noi è il più “diverso”, il più “estraneo”, quindi anche il più difficile da integrare, per diversi motivi che vengono illustrati dettagliatamente nel libro (specialmente per il ruolo determinante e particolare che ha la religione islamica).

- DERIDDA J., dal libro Sull’ospitalità, Varese 2000.

In questo libro il valore dell’ospitalità, anzi l’ospitalità stessa come idea, è qualcosa che esiste solo se gratuita, un dono, non può e non deve esigere nulla in cambio (altro che reciprocità!!). E’ il ribaltamento completo delle prospettiva precedente, quasi a teorizzare una società doverosamente aperta. Deridda chiarisce cosa intende per ospitalità: “l’ospitalità assoluta esige che io apra la mia dimora e che la offra non solo allo straniero (provvisto di un cognome, di uno statuto sociale di straniero ecc…), ma all’altro assoluto, sconosciuto, anonimo…”.

Non è importante sapere chi sia o da dove giunga lo straniero: è il nostro gesto, o meglio il nostro dono, che lo identifica tramite lo status di “ospite”. Non più nazionalità diverse, ma un'unica qualifica per tutti. L’accento non si sofferma sulla diversità, l’elemento importante è l’apertura, l’accoglienza che solo l’ospitante può offrire. Questo atto nulla ha a che vedere con il diritto, nasce infatti da un valore diverso, più universale e più spontaneo: la giustizia. Afferma Deridda: “la legge dell’ospitalità mi impone di rompere con l’ospitalità di diritto, con la legge o la giustizia come diritto”. Se l’ospitare si configura come un dono, non potrà rientrare nel campo del diritto, piuttosto assumerà, per l’ospitante, il carattere di un dovere. I rapporti di forza vengono ridefiniti: solo colui che viene ospitato permette all’accogliente di portare a termine il suo dovere. Il beneficiario e il beneficiato non si distinguono più, collaborano piuttosto all’interno del movimento dialettico dell’ospitalità. Deridda può quindi concludere “L’ospite diventa l’ospite dell’ospite”, l’integrazione che ne deriva è un’integrazione priva di limiti e richieste: è incondizionata.

Quest’ultimo punto si rende utile per far capire agli studenti che, nemmeno fra gli studiosi c’è un’unica linea comportamentale e che è facile oscillare tra apertura e rifiuto.