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La tipologia del genere parodico



Questa terza unità didattica vuole soffermarsi sulla varia tipologia del genere parodico, compiendo una sosta su alcune delle finalità più frequenti dei brani, quali consacrare, dissacrare o superare l’originale e divertire il pubblico. L’attenzione è condotta anche verso i principali tipi (falso perverso e falso consacrante) e procedimenti (abbassamento, ingrandimento, rimpicciolimento, rovesciamento, aggiornamento del contenuto e della forma dell’archetipo) presenti in parodia. Si darà dunque occasione di osservare come non sussista un unico modo di fare parodia, ma varie siano le motivazioni, i criteri e gli stili in cui essa si manifesta.

Si può partire da La Nencia da Barberino di Lorenzo il Magnifico. Nella seconda metà del Quattrocento fioriva nella città toscana il primo umanesimo volgare, contrassegnato dalla fiducia nell’uomo, dall’amore per la cultura, per l’arte e la scienza (alla corte di Lorenzo si raccolsero, tra gli altri, Pulci, Poliziano e Marsilio Ficino), e sotto il Magnifico Firenze diveniva centro promotore della pace dell’equilibrio politico in Italia. La Nencia, probabilmente databile alla prima produzione laurenziana, compone una parodia della lirica d’amore cortese (di cui l’ingrandimento focale nelle rozze iperboli incrina i topoi della lode all’amata e dello struggimento dell’amante, cui sono dedicate le stanze rispettivamente della prima e della seconda decina). La parodia nenciale non risparmia la poesia petrarchesca e la poesia pastorale (la quale ebbe alcuni rappresentanti nel Petrarca ‘bucolico’, nel Boccaccio del Ninfale fiesolano e di alcune novelle – quale la VIII, 2 – che traduco in chiave rusticale e comica il tema e il linguaggio cortese, nell’Alberti e nel genere dell’egloga, tornato in auge nel Quattrocento (a) ). La Nencia, a ben vedere, è un caso di falso consacrante: il suo autore, del resto, apprezza e recupera alla sua corte i classici e gli scrittori della tradizione. Il fine risulta dunque quello di divertire e di omaggiare i propri paradigmi letterari, ma con un procedimento che li rovescia e li abbassa. Come notano Almansi e Fink, “la perfetta parodia consacrante è un complimento fatto di cattiverie”. (b)

La Nencia a sua volta è parodiata da La Beca da Dicomano (ante 1470), di Luigi Pulci (di cui si potranno considerarsi le prime ottave, ad esempio dall’I alla VI). Scritta anch’essa alla corte medicea, La Beca costituisce un esempio di parodia di secondo grado, e ripropone un’evenienza di una parodia consacrante. Pulci tuttavia è ben più irriverente e grottesco del Magnifico: nel suo poema tutto si fa esplicito e sguaiato, e nel linguaggio aumenta il coefficiente espressivo e plebeo, tracce dell’abbassamento e della tumefazione grottesca che guidano la parodia pulciana. L’affinità formale tra la Nencia e la Beca si misura per lo più limitatamente al metro popolare (rispetti continuati, ovvero serie di ottave), e all’utilizzo di forme dialettali, convergenze al di là delle quali la Necia appare ben più prossima alla lingua e al tono di Boccaccio, a cui l’avvicina l’espressione controllata e aggraziata, e un atteggiamento privo di eccessi caricaturali, tessuto invece di cordiale simpatia verso il mondo rappresentato.

Un’opera di valore notevole nella quale hanno trovano spazio le problematiche della multivocalità e dell’incontro con l’altro da sé può individuarsi nel Don Chisciotte della Mancia di Cervantes da cui si potrà prendere in esame il brano inerente alla conquista dell’elmo di Mambrino, ad incipit del capitolo XXI. L’obiettivo che l’autore dichiara di perseguire attraverso l’opera risulta quello di ‘abbattere l’autorità e il favore che hanno nel pubblico di tutto il mondo i libri di cavalleria’, obiettivo che egli persegue mediante un loro rovesciamento in parodia. Gli ideali cavallereschi quali la lealtà, la generosità, la liberalità erano oramai anacronistici e in profonda crisi in un’Europa all’epoca percorsa da lotte tra imperi coloniali, e retta su stati assolutistici. E non a caso l’opera di Cervantes sviluppa su contrapposizioni agrodolci, quali il conflitto tra idealità e realtà, tra letteratura e vita, tra prospettive eterogenee di cui sono portatori i diversi personaggi: in essa trovano espressione la complessità e l’ambiguità della realtà e dell’esistenza. Nel brano analizzato non solo un bacile diviene nobile elmo agli occhi del prode cavaliere, ma l’intera realtà è interpretata e moltiplicata attraverso lo sguardo di ogni personaggio (in specie, nel brano considerato si incontrano e scontrano senza alcuna simmetria il punto di vista del narratore esterno, del barbiere, di Don Chisciotte, e di Sancio Panza), sicché le differenti prospettive appaiono in potenza tutte veritiere ma tutte insufficienti e relative, un principio, quello della relatività che potrebbe indirizzare alla riflessione sull’esigenza della tolleranza, del rispetto e dell’accettazione dell’altro. A questa soluzione giungono gli stessi protagonisti del romanzo, come riprovano i capitoli XLIV e XlV, in cui le versioni discordanti sul bacile o elmo convergono e convivono in un’ottica divenuta multifocale, dalla quale gemma la coniazione del ‘bacielmo’. (c) Come mostra il brano in questione, uno strumento utile a questi esiti è senz’altro l’ironia, la quale favorisce l’assunzione di prospettive diverse dalla propria ed esorta a prendere in considerazione la visione e le ragioni degli altri.

Così due personaggi radicalmente diversi (secondo il topos dei due opposti) come Don Chisciotte e Sancio Panza, non solo restano in compresenza e si confrontano senza che l’uno prevalga sull’altro, ma giungono, mediante il dialogo e la condivisione di esperienze, a un sodalizio e a un’intesa che li vedrà in progressiva e mutua convergenza. I due protagonisti divengono permeabili l’uno all’altro, in una relazione osmotica fonte di scambio e di crescita umana, grazie a un incontro che ha saputo tradurre la diversità in ricchezza e in risorsa.

Fra gli autori più imitati del Novecento figura D’Annunzio: della sua Pioggia nel pineto Luciano Folgore, Montale, e Palazzeschi hanno compiuto altrettante rivisitazioni dissacranti, nel tentativo di demolire e superare l’imperativa poetica del Vate. Sarà possibile verificare e confrontare i diversi procedimenti adottati: l’ironia di Folgore istituisce una riduzione e un abbassamento verso la dimensione piccolo-borghese e quotidiana, similmente a Montale che con Piove affranca la circostanza meteorologica da qualsiasi ‘favola bella’ e sostituisce all’elemento panico e divino un diluvio di parole e di fatti feriali dell’epoca contemporanea. La fontana malata di Palazzeschi può leggersi come un rimpicciolimento della situazione dannunziana e nel contempo come una dilatazione che conduce agli estremi le risorse foniche e la musicalità dell’originale.

E’ interessante porre anche uno sguardo alle parodie di Pablo Picasso, in particolare ai d’après, opere che risalgono alla fine degli anni ’50 e ai primi anni ’60. Non solo in questo arco di tempo, ma per buona parte della sua carriera Picasso ha parodiato pittori noti e molto amati, commentandoli ed esorcizzandoli: fra essi Cézanne, Velazquez, El Greco, Michelangelo. (d) Qui si propongono due d’après, l’uno del ’57, l’altro del ’61, che rovesciano rispettivamente Las Meninas di Velazquez e Le Déjeuner sur l’herbe di Manet.
 

(a) Cfr. F. Tateo, Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano, Roma, Laterza, 1981, pp. 8, 15.

(b) G. Almansi e G. Fink, Parodia come letteratura, letteratura come parodia, Milano, Bompiani, 1976, pag. 169.

(c) Cfr. Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria (a cura di), Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Torino, Paravia, 1994, vol. II, t. I, pp. 120-123.

(d) Cfr. G. Almansi e G. Fink, Parodia come letteratura, letteratura come parodia, Milano, Bompiani, 1976, pag. 140.