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LE LEGGI RAZZIALI IN ITALIA
APPUNTI PER UNA RIFLESSIONE

 

Nel 1938 furono introdotte in Italia le leggi razziali discriminanti i cittadini di religione ebraica sulla base d’asserzioni razziali. Nel 1937 si era presentata una prima avvisaglia di carattere razzista: la legge puniva i matrimoni tra cittadini italiani e sudditi delle colonie dell’Africa orientale con la reclusione da uno a cinque anni.
Le leggi razziali fasciste non sono una pietra d’inciampo del popolo italiano, uno spiacevole incidente di percorso, ma il risultato di un lungo processo d’inculcamento di pregiudizi.
Nel 1848 un sovrano di casa Savoia, Carlo Alberto, sull’onda degli entusiasmi liberali, restituiva piena libertà di culto ad ebrei e valdesi del regno di Sardegna; novant’anni più tardi un altro sovrano di casa Savoia, Vittorio Emanuele III, avallava con la sua firma la discriminazione per legge.

Se agli inizi del secolo qualcuno avesse chiesto agli studiosi in quale nazione europea c’erano maggiori possibilità di manifestazione dell’antisemitismo, questi avrebbero risposto, con certezza, la Francia. Proprio nel paese transalpino si erano manifestate gravi forme d’intolleranza, culminate nel 1894-98 nel processo Dreyfus, mentre nella Russia zarista, dal 1881, i pogrom (violente sommosse popolari) erano stati utilizzati dal regime per scaricare le tensioni sociali. Non mancavano eloquenti e preoccupanti segnali provenienti da tutto il continente europeo.
Antisemitismo e razzismo, sia pur nella loro diversa origine storica, hanno trovato, tra il XIX e il XX secolo, una drammatica combinazione nelle ideologie totalitarie, culminata con la pianificazione nazista dello sterminio di massa.

PERCHÉ L’ANTISEMITISMO?

Potremmo affermare che è una posizione ideologica, su basi falsamente razziali, ostile alle popolazioni di religione ebraica. Ancora nella prima metà dell’Ottocento era definito come “antigiudaismo”.
L’antigiudaismo attraversa la storia dell’umanità fin da epoche precristiane ed ha coinvolto tanto l’islamismo, quanto altre culture in cui non vi è alcuna presenza d’ebrei.
Essenzialmente riflette un pregiudizio, fortemente radicato, nei confronti dell’ebraismo, quale entità culturale e religiosa, che non accetta l’integrazione entro le varie realtà in cui gli ebrei si sono venuti a trovare.

Si riscontrano due filoni d’antisemitismo:

Antisemitismo teologico
In conformità a fuorvianti enunciazioni, la Chiesa cristiana ha lanciato in passato due accuse, rimaste per diversi secoli inestinguibili: deicidio, in altre parole di aver ucciso Dio nella persona di Gesù, e d’essere associati al diavolo. Da S. Agostino in poi, l’antisemitismo teologico trovò forza nel concetto del “popolo testimone”, in altre parole la discriminazione degli ebrei come prova di un disegno divino per rendere testimonianza della verità del cristianesimo.
Ciò portò a giustificare lunghi secoli di discriminazione da parte degli Stati cristiani.
La prima crociata (1096) di papa Urbano II diede il via ad una lunga stagione di persecuzioni che sfociarono nelle successive lotte religiose, che coinvolsero tutto il continente europeo. Le dispute scatenate dalla Riforma luterana non favorirono la posizione degli ebrei europei: Lutero scatenò le sue invettive contro di quanti di religione ebraica non si erano convertiti e non avevano abbracciato il protestantesimo; i Gesuiti si dichiararono favorevoli ad una loro chiusura nel ghetto perché ritenevano il provvedimento utile alla propaganda cattolica.
Comprensibilmente in seno agli ebrei si affermò un atteggiamento d’autodifesa, di chiusura e diffidenza verso la società dei cristiani, e trovarono maggior comprensione e tolleranza tra i musulmani, coi quali condividevano pure alcune affinità culturali.
Le Crociate portarono ad un’intensificazione dei traffici nel bacino mediterraneo, che favorì lo sviluppo dell’intermediazione finanziaria da parte degli ebrei (attività interdetta ai cristiani). Ciò, nelle situazioni di crisi, divenne motivo per far scatenare l’antisemitismo economico e politico.

Antisemitismo economico e politico
L’antisemitismo economico deriva da quello teologico e neppure nel corso del XVIII secolo, nell’età dei Lumi, le nuove correnti filosofiche riuscirono a risolvere i motivi di discriminazione. Ad atti di grand’apertura e tolleranza fece seguito altri di chiusura; lo stesso Voltaire, gettando le basi dei princìpi della storia antiprovvidenzialistica, favorì, anche se indirettamente, ad alimentare le successive interpretazioni discriminatorie, ora non più sul piano religioso ma razziale. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, l’affermazione della teoria delle razze introdusse nuovi fattori di giustificazione dell’antisemitismo. Va precisato che l’antisemitismo su base razziale non implicava una discriminazione ma favoriva il pregiudizio per associazione d’idee.
Nel campo delle teorie politiche socialiste, l’equiparazione degli ebrei alla borghesia capitalista – sostenuta anche da Karl Marx – trovò un certo consenso e spesso fu utilizzata estensivamente in conseguenza della grave crisi economica di fine Ottocento. In Francia, Germania, Austria nacque partiti e movimenti d’opinione dichiaratamente antisemiti, pronti a sfruttare le tensioni del proletariato e le paure del ceto medio davanti ai grandi cambiamenti politici.
Nell’Europa orientale, le correnti antisemite si rifacevano invece ai motivi cristiano-medioevali dell’antigiudaismo, spesso orientati con abili campagne di propaganda. Il caso più clamoroso è offerto dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion (Russia, 1903 e Parigi 1905), un falso compilato dalla polizia segreta zarista per dimostrare presunti piani di dominio mondiale degli ebrei. Per quanto sia stata dimostrata la sua completa falsità, è stato più volte posto a fondamento delle campagne antisemite orchestrate da nazismo, fascismo e dai movimenti che si richiamano a queste ideologie.
La reazione a queste campagne persecutorie fu la nascita di un vivace movimento, diffuso soprattutto tra i giovani ebrei russo-polacchi, per un’emancipazione col ritorno alla Palestina. Nel 1897 Theodor Herzl convocò a Basilea il primo congresso mondiale del movimento Sionista, che si poneva l’obiettivo di raccogliere politicamente l’aspirazione religiosa degli ebrei di tornare nella “terra promessa”, dove nel frattempo si erano organizzati i primi nuclei d’insediamento. La proposta fu inizialmente criticata ed ostacolata tanto dagli ambienti ebrei più radicali, quanto da quelli riformati che tendevano ad una maggior integrazione negli Stati d’appartenenza.
La Rivoluzione d’ottobre offrì grandi attese e speranze agli ebrei russi, per una completa emancipazione, ma ben presto dovettero fare i conti con l’irrigidimento del regime e la costituzione dello stato sovietico che trovò nell’antisemitismo le giustificazioni per le repressioni di massa e le persecuzioni degli intellettuali.
Gravi forme d’intolleranza riguardarono l’Europa orientale del primo dopoguerra: la disgregazione degli imperi plurinazionali aveva favorito l’affermazione dei più esasperati nazionalismi, spesso fondati sul principio etnocentrico dei nuovi Stati e dei confini sorti dopo la prima guerra mondiale. Gli ebrei si trovarono coinvolti nei nuovi processi identificativi territorio-nazione-stato: non trovando una posizione coerente alla loro tradizione, segnati dall’improvvisa ed imposta diversità subirono forme crescenti di discriminazione. Prima ancora che nella Germania si diffondesse il nazismo, già in Polonia – per fare un esempio – l’intolleranza era un fenomeno che preoccupava. I flussi migratori verso la Palestina erano indicativi a segnalare lo stato delle cose. Più che antisemitismo, o vecchio antigiudaismo, si trattava di nuovo razzismo.

PERCHÉ IL RAZZISMO?

Bisogna precisare che il termine di “razza”, per la specie umana, è spesso usato in modo vago e confuso. Se è possibile prendere in considerazione in modo relativamente rigoroso singole caratteristiche biologiche, è arduo o impossibile applicare alla specie umana una classificazione per razze, ciascuna delle quali corrisponda ad un determinato e preciso modello o complesso di caratteristiche.
Le differenze biologiche sono, infatti, il prodotto della sovrapposizione dei meccanismi genetici di selezione nel corso del lento processo d’evoluzione. Queste caratteristiche (tratti somatici, frequenza dei gruppi sanguigni) sono il risultato di più fattori selettivi che hanno agito in epoche passate: questi fattori oggi tendono a perdere importanza sia per il continuo interscambio, sia per il ridursi degli habitat naturali, veri elementi importanti nella formazione delle caratteristiche biologiche.
La parola “razza” comparve probabilmente in Inghilterra nel XVI secolo per indicare l’origine dei primi stati nazionali europei, anche se già in antichità (Plinio il Vecchio, 23-79 d.C.) era stato posto il problema di classificare il genere umano: le differenze erano spiegate con l’influenza dei fattori climatici.
Alla fine del Settecento questa teoria perse d’importanza e si affermò la tesi poligenetica che il genere umano non discendeva da un unico progenitore: ciò ebbe rilevante conseguenza nel definire che le differenze, se originarie, erano immutabili. Da quel momento le enunciazioni sul concetto di “razza” assunsero la funzione di legittimare certi comportamenti sociali (colonialismo) e in particolare lo schiavismo. Però per consolidare il primato d’alcune razze (europee) su altre (non europee) gli scienziati fissarono delle scale gerarchiche con le quali definire i portatori di tali differenze. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento i maggiori filoni della sociologia e dell’antropologia positivistica furono impegnati a definire le ipotesi deterministiche che sostanziavano le differenze tra la “razze” in termini di capacità biologiche, morali ed intellettuali.

La falsa scientificità delle tesi razziste
Differenza biologica e gerarchia delle capacità divennero le basi del pensiero razziale del Novecento e della conseguente ideologia razzista: la divulgazione, per opera dei francesi J.A. de Gobinau e G. Vacher de Lapouge e dell’anglo-tedesco H. S. Chamberlain, delle teorie sulla “razza” introdusse nel pensiero europeo la convinzione della fondatezza scientifica dell’inferiorità razziale dei popoli non bianchi e non ariani.
L’affermazione del pensiero razzista portò alla legittimazione di certi comportamenti sociali, prima tra i quali la discriminazione degli uni sugli altri. Ora gli altri erano individuati in conformità a specifiche caratteristiche fisiche da cui si facevano discendere capacità culturali e doti morali, e ciascun individuo di quel gruppo era portatore esemplare di tali caratteristiche.
Superata l’esigenza strategica di legittimare lo schiavismo e il colonialismo, il razzismo s’intrecciò con i pregiudizi antisemiti, anzi trovarono nel primo i presunti fondamenti scientifici, fino alla giustificazione del genocidio nazista del popolo ebreo (soluzione finale).

PERCHÉ LA “SOLUZIONE FINALE”?

Il nazionalsocialismo s’impose come un movimento politico di tipo nuovo perché coniugava nel suo verbo l’ideologia razzista della superiorità germanica, un radicale nazionalismo e il progetto di una riduzione degli squilibri sociali. Dopo il fallimento della via rivoluzionaria (putsch di Monaco 1923), la grave crisi economica del 1929 favorì la sua ascesa parlamentare costantemente accompagnata dalla violenza politica e dal disprezzo dei diritti umani. Dopo la nomina d’Adolf Hitler a Cancelliere (1933), i fautori del compromesso con i ceti dominanti, liquidarono l’ala rivoluzionaria ed imposero in breve tempo un regime capace di controllare capillarmente ed organizzare ideologicamente la società tedesca. Eliminata fisicamente l’opposizione (i campi di concentramento sorgono fin da subito - nell’autunno 1933 furono segnalati 45 campi di concentramento per 40 mila deportati), fu progettata una “nuova società” fondata su criteri razziali (le SS, oltre che corpo scelto, dovevano essere una riserva permanente di razza pura), senza distinzioni sociali, e garantita da prestazioni a favore della collettività.

Le tesi razziste del nazionalsocialismo
La fusione delle teorie razziste e dei pangermanisti tedeschi dell’Ottocento trovò piena realizzazione nella visione razzista del nazismo: l’unica “razza” portatrice di tutte le virtù umane sarebbe stata nel passato quell’ariana, creatrice delle antiche civiltà dell’India, Persia e Grecia; di essa sarebbero state continuatrici le genti germaniche, e fra queste, in particolare, il popolo tedesco, vissuto per secoli nell’Europa centrale, anche in nuclei isolati, senza subire assimilazioni dalle popolazioni vicine. Così le stirpi germaniche, più di tutte le altre genti ariane, avrebbero saputo sfuggire alle contaminazioni con “razze” inferiori ed avrebbero così difeso con la loro purezza l'originaria superiorità.
Sul terreno pratico, la mistica del razzismo implicava al nazionalsocialismo, del quale era un motivo fondamentale, la necessità di unire tutti i parlanti tedeschi nella Grande Germania (estesa nell’affermazione della superiorità delle genti germaniche anche ad olandesi, fiamminghi, danesi, norvegesi, svedesi), di limitare al massimo contatto tra i tedeschi ed individui di stirpe diversa (donde il divieto di matrimonio senza l’autorizzazione governativa), di evitare al massimo ogni contatto con gli ebrei, ritenuti popolo semitico estraneo alle tradizioni militari del germanesimo.
Massimo esponente teorico del razzismo nazionalsocialista era Alfred Rosenberg, tedesco-baltico di Reval, suddito russo rifugiato dopo la prima guerra mondiale in Germania. Egli aderì subito al partito di Hitler facendo una rapida carriera politica. Nel 1930 pubblicò il libro Il mito del XX secolo (messo all’indice dalla Chiesa nel 1934), in cui espose le teorie di un neopaganesimo, fondato sull’esaltazione delle virtù di una pura razza germanica non contaminata da rapporti con gli ebrei. Rosenberg considerava la massoneria e il bolscevismo prodotti dello spirito ebraico e ciò rappresentava uno degli elementi dominanti della sua predicazione fanatica. Per queste responsabilità e per aver governato i territori russi occupati, fu condannato a morte a Norimberga.
Tuttavia non era stato chiarito come avrebbe dovuto concretarsi il radicale antisemitismo che permeava l’ideologia nazista: era, però, facile intuirlo. Inizialmente il regime adottò una politica di discriminazione economica e giuridica, che tendeva a rendere difficile la vita agli ebrei tanto da indurli ad emigrare. Il 15 settembre 1935 furono emanate le “Leggi di Norimberga” che definirono chi poteva far parte del popolo tedesco e chi ne doveva essere escluso: fu definito lo stato d’inferiorità razziale degli ebrei e fu la legittimazione ad ogni futura violenza (la “notte dei cristalli” del 9 novembre 1938 ebbe a pretesto l’uccisione per mano di un ebreo-polacco di un diplomatico tedesco a Parigi). Queste leggi autorizzarono l’estirpazione d’interi ceppi di popolazioni, dagli ebrei agli zingari, ai popoli slavi dell’Europa orientale. Tuttavia, il regime nazista aveva emanato, negli anni precedenti, dei provvedimenti sulle malattie ereditarie (luglio 1933), sul boicottaggio dei negozi degli ebrei (marzo 1933), sul pensionamento dei burocrati non ariani (aprile 1933); seguirono poi altre leggi contro i soggetti originati da matrimoni misti (novembre 1935) e sulla depredazione dei beni degli ebrei (aprile 1938). Con la guerra, davanti al gran numero d’ebrei abitanti nei territori occupati, il regime avviò le procedure per una soluzione radicale del problema attraverso la selezione, la deportazione, lo sfruttamento fisico, lo sterminio. I piani furono elaborati da Mueller, Heydrich, Hoffmann, Eichmann, nel corso della “Conferenza di Grosser Wannsee” (20 gennaio 1942), ed è plausibile ritenere che Hitler li avesse approvati. Circa 700 mila ebrei furono eliminati in forme non pianificate durante l’avanzata tedesca in Unione sovietica. Gli altri nei ghetti russi e polacchi. A partire dall’estate 1942 entrarono in funzione i campi di sterminio, in cui gli ebrei, deportati da tutta l’Europa, vennero sterminati con le camere a gas. Moltissimi altri morirono, durante i rastrellamenti, i trasporti, nei campi di concentramento grandi e piccoli sparsi dalla Francia alla Lituania, da Trieste a Lubecca. Si calcola che la soluzione finale abbia provocato la morte di cinque-sei milioni d’ebrei.

IL FASCISMO AVEVA IN SÉ CARATTERI RAZZISTI E DISCRIMINATORI?

Anche se prevale l’opinione di un “volto umano”, di un carattere italianamente blando del fascismo, l’ideologia mussoliniana portava in sé molti aspetti propri delle teorie etnocentriche che si erano affermate a cavallo tra Ottocento e Novecento e che erano state il fondamento delle posizioni nazionaliste. Segno eloquente è la politica adottata nelle regioni di confine e nelle colonie. Nelle prime, giustificando la necessità di contrastare nazionalismi opposti e l’ardore dell’antifascismo militante, non esitò ad applicare metodi di snazionalizzazione fino al “genocidio culturale” contro le minoranze nazionali comprese all’interno dei confini dello Stato italiano. Nelle seconde adottò, in linea con la logica colonialista del tempo, la mano pesante per stroncare ogni movimento di ribellione.

Nazionalismo ed etnocentrismo della Venezia Giulia
Il fascismo giuliano, autodefinitosi già nel 1919 “di confine”, si presentò fin da subito con caratteristiche di aggressività, spesso ampiamente coperta dalle autorità militari e di polizia che tollerarono aggressioni e violenze, dall’incendio del “Narodni Dom” di Trieste agli omicidi politici. Una lunga scia di scontro che, in un certo senso, era il proseguo sotto forma di una “guerra speciale” della contesa nazionale con sloveni e croati sulla Venezia Giulia aperta alla fine dell’Ottocento e continuata durante la prima guerra mondiale. Violenze e intimidazioni accompagnarono le elezioni politiche del 1921 e del 1924 e il consolidamento del fascismo in regime dopo il delitto Matteotti; con il pretesto di sedare sommosse contadine e gli scioperi operai si accentuarono le azioni contro sloveni e croati, ritenuti i primi responsabili delle tensioni. I responsabili del fascismo locale cercarono di individuare e stroncare l’opposizione politica e quella delle minoranze, per avere le mani libere nella politica di espansionismo adriatico e balcanico alla quale il capitalismo italiano si dimostrava interessata e vedeva in Trieste, in particolare, il trampolino di lancio.
Gli oppositori vennero colpiti attraverso il Tribunale Speciale e nei riguardi delle minoranze (definite allogene, in altre parole appartenenti ad un’altra nazionalità) il fascismo adottò una politica gravemente equivoca, impedendo i diritti di libera espressione culturale ed economica, perseguendo le frange nazionaliste e cercando di attrarle nel sistema dello stato fascista attraverso forme d’affrancamento politico e d’emancipazione sociale, nella capziosa distinzione tra, appunto, soggetti allogeni e alloglotti, in altre parole con lingua diversa da quella della maggioranza dello Stato e quindi ritenuti più duttili nei riguardi dei disegni intrapresi. Inoltre, favorì la loro emigrazione e quindi una semplificazione etnica della regione. Ma non fece altro che scavare ulteriori solchi di profondo odio in un’area già difficile.
Il fascismo non fece mai mistero dei suoi progetti e nel 1927 la rivista Gerarchia, principale organo teorico del regime e diretta dallo stesso Mussolini, pubblicò un numero speciale alla Venezia Giulia, dove i gerarchi locali resero espliciti piani e prospettive future: nulla sarebbe stato tollerato come sovvertitore dell’ordine morale creato dal fascismo. Negli anni successivi entrarono in vigore ulteriori provvedimenti che portarono alla riduzione nella forma italiana dei cognomi, nomi e della toponomastica regionale, alla chiusura di scuole, associazioni, biblioteche, alla soppressione della stampa, alla persecuzione dei sospetti di praticare il proprio sentimento nazionale. Ci furono degli interventi presso la Chiesa per limitare e circoscrivere l’uso dello sloveno e del croato nella liturgia. Seguirono nuovi processi del Tribunale Speciale, giunto appositamente in regione, con condanne esemplari, fino alla pena di morte. I cosiddetti allogeni furono discriminati all’interno delle forze armate e della pubblica amministrazione.
Quindi, anche se la regione non era pronta a comprendere le ragioni delle leggi antisemite, vista la consolidata presenza degli ebrei nei principali capoluoghi, spesso artefici delle fortune economiche degli ultimi cinquant’anni e perfettamente integrati nel sistema sociale e politico, era purtroppo preparata a sopportare gli strumenti e le logiche del razzismo e della discriminazione.

PERCHÉ LE LEGGI RAZZIALI IN ITALIA?

Una prima, immediata, risposta può essere trovata nella stipulazione dell’intesa tra l’Italia fascista e Germania nazista, nota come Asse Roma-Berlino. Patto d’amicizia siglato il 24 ottobre 1936 preparato dall’appoggio diplomatico tedesco alla guerra coloniale d’Etiopia e alla reazione alle sanzioni economiche per superare le divisioni provocate dalla questione austriaca. Le prime conseguenze dell’accordo furono la partecipazione alla guerra civile spagnola (1936-1939) e l’adesione italiana al Patto anticomintern (1937). Mentre Mussolini era ancora incerto per un’alleanza militare, alcuni ambienti del fascismo già da tempo frequentavano i congressi del nazionalsocialismo e spingevano per adeguare il passo politico italiano a quel tedesco. Così dopo la costituzione dell’Asse, il razzismo trovò nuovi mentori in Giovanni Preziosi e Roberto Farinacci e fu introdotto col Manifesto della razza, compilato da un gruppo di liberi docenti universitari, (26 luglio 1938) e con la diffusione di una rivista propugnatrice La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi (5 agosto 1938). Già nel successivo mese di settembre furono adottate le prime misure vessatorie: espulsione dal territorio italiano degli ebrei immigrativi dopo la guerra mondiale, anche se divenuti cittadini italiani; esclusione dei professori ebrei dalle scuole d’ogni ordine e grado; esclusione degli studenti ebrei da tutte le scuole con la sola eccezione degli universitari già iscritti anteriormente.
Il razzismo italiano, in quelle prime disposizioni, era solo una manifestazione ufficiale di antisemitismo. Ben presto questa ristretta posizione fu superata con la successiva Dichiarazione sulla razza dell’ottobre 1938, che fissava nuove misure restrittive e vessatorie (divieto di matrimonio con individui non ariani; necessità di consenso governativo per il matrimonio con stranieri; divieto agli impiegati statali di sposare individui di nazionalità straniera). Così s’intendeva inquadrare nella nuova politica razzista tutta l’attività fascista in materia demografica, assistenziale, educativa ed associativa. Per attuare questa politica fu creata, presso il Ministero dell’Interno, un’apposita Direzione Generale; le anagrafi comunali furono obbligate alla registrazione dello stato civile su base razziale e tale menzione doveva comparire su tutti gli atti pubblici.
Particolarmente gravi risultarono le disposizioni di discriminazione, estese anche a quanti, non solo di genitore ebreo, appartenevano alla religione ebraica o avevano fatto manifestazione di ebraismo. Eppure, in una contraddizione tutta italiana, non era considerato di “razza ebraica” chi poteva dimostrare che dal 1° ottobre 1938 apparteneva a una religione diversa da quell’ebraica, oppure risultava beneficato in virtù di particolari benemerenze militari e politiche (R.D.L. 17 novembre 1938, n.1728).Quest’ultimo aspetto fu esteso con l’introduzione della figura dell’arianizzazione: la possibilità di vedere dichiarata la non appartenenza alla “razza ebraica”, anche in difformità degli atti dello stato civile.
Nuove limitazioni furono promulgate nel febbraio 1939, in materia di proprietà immobiliare e quattro mesi più tardi, dopo la firma del Patto d’Acciaio (22 maggio), furono introdotte divieti all’esercizio delle libere professioni. Seguirono una miriade di disposizioni capillarmente adottate e rese vigenti ed una forte campagna di propaganda contro il «nemico d’Italia”.

Gli italiani davanti alle leggi razziali
Le leggi razziali erano anche la conseguenza della debolezza del regime nella strategia del consenso ma trovarono alimentazione in una campagna diffamatoria che era iniziata ben prima. Ancora nel 1935 il concetto di “razza” non era praticato dalla pubblicistica fascista che preferiva sottolineare, nella corsa al primato demografico, quelli di popolo e di nazione. Nel 1937 esce il pamphlet Gli ebrei in Italia di Paolo Orano, contenente le solite accuse tradizionali, ma con la preoccupazione di risolvere il rapporto fascismo-ebraismo: Orano offriva molte patenti di “buon fascista” per ottenere sconti e benefici nei provvedimenti razziali che sarebbero giunti. La pubblicazione scatenò una forte polemica sul sionismo che riguardò principalmente il ceto intellettuale. I rappresentanti delle Comunità israelitiche chiesero spiegazioni al governo per il tenore di certi interventi comparsi sulla stampa e questi si preoccupò di rassicurarli che quelle opinioni erano isolate. Questo dualismo tra la posizione ufficiale e l’indirizzo di una certa stampa caratterizzò la fase precedente la promulgazione delle leggi razziali.
La popolazione italiana seguì con perplessa preoccupazione l’introduzione dei provvedimenti, anche perché, escluso un certo nazionalismo di maniera e qualche intemperanza creata in occasione delle sanzioni economiche, non intravedeva elementi tali da giustificare la discriminazione. Sopravviveva, invece, un vecchio antigiudaismo di estrazione medioevale-cattolica che comunque non era sufficiente per comprendere le posizioni estreme del fascismo razzista. C’era il pregiudizio classico verso le diversità. Clima diverso, evidentemente, nelle zone di confine e nelle aree storiche di emigrazione, dove le limitazioni in materia di matrimoni con stranieri vennero accolte con maggior preoccupazione. Di fatto, mentre la maggioranza s’infatuò del mito nazionalistico del primato italiano, solo una minoranza ascoltò le sirene della propaganda razzista. Mito razzista preso sul serio da mediocri intellettuali e studenti universitari in odore di carriera; nemmeno tutti i gerarchi cavalcarono l’idea-forza, consapevoli che l’esiguità numerica della comunità ebraica non rappresentava una minaccia, mentre la centralità di diversi suoi ragguardevoli rappresentanti, negli interessi economici nazionali, aveva indubbiamente favorito il regime e dello Stato.
Ciò non significa che gli italiani furono estranei alle persecuzioni oppure rimasero fuori del cono d’ombra della Shoah: certamente molti s’impegnarono, anche sul piano personale e consapevoli dei rischi, a rendere meno dura quella condizione, e salvarono tanti ebrei destinati alla deportazione, ma il popolo italiano non si sottrasse dalla responsabilità di non aver capito l’indirizzo originario del fascismo.
All’alba dell’ingresso in guerra, Mussolini lasciò intendere che desiderava che si preparassero dei campi di concentramento anche per gli ebrei.

Le leggi razziali nella Venezia Giulia
Per gli ebrei, che si erano fatti protagonisti dell’irredentismo e partecipi dell’Italia fascista, la legislazione razziale fu un vero e proprio trauma, anche perché la stampa locale, e in particolare “Il piccolo” di Trieste, con suo direttore Rino Alessi, aveva polemizzato con Africani in merito all’adeguamento della Romania ai princìpi del razzismo di stampo nazista. In verità lo scontro era all’interno della classe dirigente triestina: erano palesi le intenzioni di certi fascisti di liquidare l’ “ibrida zona dell’ebraismo massonico in camicia nera” per sostituirsi ai vertici della città. Infatti l’indomani della pubblicazione del Manifesto della razza, Alessi si allineò alla posizioni dell’antisemitismo indiscriminato: qualche mese più tardi avrebbe potuto acquistare a prezzo irrisorio “Il piccolo” dal precedente proprietario, l’ebreo Teodoro Mayer. Nella Venezia Giulia le prospettive apparivano più chiare, sia per il precedente acquisito nei confronti delle minoranze slave, sia per le notizie giunte dalla Germania. Infatti le reazioni non mancarono, soprattutto dopo l’annessione nazista dell’Austria, e non mancarono le intimidazioni verso la comunità israelitica da parte degli ambienti del fascismo universitario, fomentato dal quotidiano “Il popolo di Trieste” e sostenuto dal locale Consolato germanico: forse c’era chi ambiva a quei posti da professionista che si sarebbero resi disponibili con i provvedimenti razziali che comportarono, in breve tempo, alla decapitazione della classe dirigente triestina (banche, assicurazioni, compagnie di traffico e navigazione) ed alla spoliazione di non irrilevanti beni economici (imprese commerciali, aziende, industrie date in gestione) a vantaggio di veri e propri profittatori che se ne impossessarono a stralcio e dei soliti arrivisti pronti ad occupare le posizioni rimaste libere. Tra il 1938 e il 1939 più di 115 aziende triestine furono, in qualche misura, “arianizzate”.
Il tessuto economico di tutta la Venezia Giulia ne usciva profondamente mutato e con questa la società tutta. I ceti meno abbienti, più legati alle sorti degli imprenditori, anche se spesso in contrasto con questi per motivi di classe, manifestarono una spontanea solidarietà che divenne conforto per tanti dignitosamente rassegnati ma anche smarriti che cercarono nell’abiura una via di salvezza.

Tutto ciò che n’è seguito è conseguenza della follia razzista di quegli anni Trenta: l’atto preparatorio come preludio di una tragedia annunciata e puntualmente realizzata. Le immagini che accompagnano questo testo, e tratte dal materiale espositivo dell’Associazione Deportati Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Trieste), sono l’eloquente prova che l’umanità non può abbassare la guardia davanti alle ideologie farneticanti e non può concedersi il lusso di dimenticare.
Roberto Spazzali

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