GIOVANNI PASCOLI

Biografia

Giovanni Pascoli nacque nel 1855 in provincia di Forlì in una famiglia agiata e molto numerosa costituita da dieci figli, cinque dei quali morirono precocemente. La sua infanzia fu nel complesso serena, ma ad interrompere questa situazione fu l’assassinio del padre Ruggero, alla cui memoria il poeta dedicherà Myricae, la sua prima opera. Questo evento cambiò radicalmente la vita dell’intera famiglia, che si trasferì nella casa della madre, cui il poeta dedicherà i Canti di Castelvecchio.

La vita di Giovanni fu segnata da numerosi lutti avvenuti a breve tempo l’uno dall’altro: scomparvero tre sorelle tra cui Margherita, la maggiore, subito dopo perì anche la madre ad appena quarant’anni e qualche anno dopo anche i fratelli Luigi e Giacomo, uno di meningite e l’altro di tifo. Giovanni frequentò il liceo, conseguendo così una formazione di tipo classico, fino ad ottenere una borsa di studio che gli permettè di frequentare la facoltà di lettere all’Università di Bologna e di laurearsi nel 1882; dopo la laurea iniziò il lavoro di insegnante, spinto dal suo maestro Carducci. Nel frattempo chiamò le due sorelle Ida e Maria a vivere con lui, nel tentativo di ricostruire quell’ambiente familiare che era stato devastato dai molti lutti. Ma Ida nel 1895 si sposò, nonostante l’opposizione del poeta; così si trasferì a Castelvecchio con Maria, alla quale dedicò i Poemetti e con la quale vivrà fino alla morte, avvenuta nel 1912 a Bologna a causa di un tumore al fegato. Fu sepolto a Castelvecchio.

 

L’angoscia nelle opere di Pascoli

L’intera produzione poetica di Pascoli, apparentemente semplice e di facile lettura, è caratterizzata da forti note autobiografiche e dalla presenza di temi, motivi e situazioni ricorrenti, quali la siepe, il nido (inteso come nido familiare, unico luogo rassicurante all’interno del quale Pascoli si rifugia), la famiglia, l’orfano, il lutto, il sogno, la solitudine, l’erotismo negato, tutti utilizzati all’interno di una sperimentazione linguistica e metrica.

Il tema dell’angoscia nella produzione pascoliana traspare principalmente in due poesie tratte da Myricae: il lampo e il tuono.

 

IL LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d'un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s'aprì si chiuse, nella notte nera.

 

 IL TUONO

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d'arduo dirupo

che frana, il tuono rimbombò di schianto:

rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,

e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,

e poi vanì. Soave allora un canto

s'udì di madre, e il moto di una culla.

 

Queste due poesie, appartenenti entrambe alla sezione Tristezze, sono collocate nella raccolta l’una di seguito all’altra, anche se sono nate in momenti differenti, tanto che le ultime parole della prima (nella notte nera) vengono riprese all’inizio della seconda (E nella notte nera) e richiamano il motivo luttuoso del nero.

Ne Il Lampo, che ha connotazioni visive, il paesaggio viene portato in primo piano da un lampo che illumina una casa: quest’immagine diventa simbolo dell’agonia del padre nel momento della sua morte: la terra ansante, livida, in sussulto rappresenta l’uomo in agonia; la casa bianca bianca rappresenta l’occhio del morente che si apre per l’ultima volta (apparì sparì; s’aprì si chiuse). Il climax ascendente degli aggettivi e dei termini utilizzati (ansante, livida, in sussulto; ingombro, tragico, disfatto) carica l’intero componimento di un senso d’angoscia.

Il Tuono, sebbene riprenda l’inizio dell’altra poesia (la congiunzione “e”) e la situazione meteorologica ponendosi così in una condizione di continuità con il testo precedente, è anche in opposizione con esso. Infatti stavolta a dominare è il senso dell’udito e non la vista: ciò viene sottolineato dall’utilizzo dei verbi  con connotazioni talvolta onomatopeiche (rimbombò, rimbalzò, rotolò, rimareggiò, vanì, udì) e dall’allitterazione.

Qui la figura familiare non è più il padre bensì la madre (un canto s’udì di madre) che ha una funzione consolatrice (sottolineata dai termini soave e canto), ma invece di introdurre speranza, sottolinea la tragicità dell’esistenza; vita e morte infatti sono strettamente legate tra loro, e sono qui rappresentate dalla rima nulla-culla, parole che aprono e chiudono la poesia (invertite nell’ordine).

 

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Percorso interdisciplinare di Pamela De Pasquale Anno Scolastico 2004-2005 Liceo Scientifico "G.Oberdan" Trieste